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VITA DA FAVELA:
I «SEM TERRA » DI BELÉM CAPITALE DELLE BARACCOPOLI

Case a due piani in muratura, blindate dalle inferriate, attaccate a baracche sgangherate di legno. Strade di terra battuta sommerse dall’acqua, bimbi scalzi che girano seminudi nel fango. Palo central è la strada segnalata come zona vermelha, la zona rossa di Guamà , la più pericolosa della principale favela di Belèm. La capitale del Parà sorge alla foce del Rio delle Amazzoni, ha un milione e 800mila abitanti, il 40 per cento dei quali vive in baraccopoli. È la percentuale più alta tra le capitali federali brasiliane. È stagione delle piogge, in Amazzonia tutti i giorni a mezzogiorno e verso sera acquazzoni e scrosci violenti in un istante allagano le strade prive di fognatura. L’acqua è il confine e il fondamento della favela. Oltre a Guamà, circa 80mila abitanti, dal nome di un affluente del Rio delle Amazzoni, l’altro grande slum si chiama Tira Firme (terra ferma). Le baraccopoli sono sorte sul fiume e le case che delimitano la favela, alcune ancora di legno, molte in muratura, sorgono su palafitte sopra i liquami di un canale di scolo. Questa favela nasce da un a logica cinica, è la discarica in cui si raccoglie lo scarto umano della foresta. Si è sviluppata dagli anni 60 con i primi contadini e indigeni espulsi dai latifondisti dalla foresta. Per ricavare pascoli e legname, gli alberi vengono tagliati selvaggiamente chi vive da secoli di agricoltura e pesca doveva andarsene diventando sem terra, senza terra. Così è aumentato l’esodo verso la città, dove i contadini hanno occupato la terra e costruito. Da qualche anno attorno al nucleo originale di Guamà è esploso un grande agglomerato abusivo. Le baracche della favela dei sem terra oggi circondano la città, ma spuntano anche nel centro tra auto, negozi e appartamenti di lusso. Vivono in queste condizioni circa 500 mila persone, la metà dei quali campa con un reddito medio che sfiora i cinque reals al giorno, due dollari, la soglia che per le convenzioni internazionali indica il confine con la miseria. Una famiglia su tre è costituita da ragazze madri. Le coppie difficilmente si sposano, spesso l’uomo forma più famiglie e alle donne tocca mantenere i bambini. La povertà diffusa alimenta la criminalità, rapine, prostituzione minorile e spaccio di droga. Solo un ragazzo su quattro finisce la scuola dell’obbligo I dodicenni di Guamà spesso sniffano colla e solventi per regalarsi qualche attimo di fuga dal degrado. Sulle strade vediamo le babyprostitute con un trucco pesante sul volto da bambina aspettare i clienti davanti a bordelli mascherati da improbabili negozi di estetiste.
«Ma anche a Guamà e a Tira Firme sono sorte molte attività commerciali legali – spiega padre Claudio Pighin , friulano di Casarsa, 56 anni ,missionario del Pime arrivato in Brasile 30 anni fa, compagno di messa di padre Giancarlo Bossi, il missionario sequestrato e liberato nelle Filippine – come bar, negozi di alimentari, abbigliamento e alcune attività artigianali. Ora, con la crisi, si è dimezzata la quantità di riso e fagioli venduta, ad esempio. E la favela sta cambiando, ci finiscono anche i nuovi disoccupati che prima stavano nei quartieri di operai e impiegati ». L’economia della favela si intuisce anche dalle antenne paraboliche sui tetti. Le compagnie via cavo fanno normalmente contratti di installazione e abbonamenti ai favelados, buoni clienti. Luce ed acqua potabile spesso vengono da allacciamenti abusivi. Il comune però ha dato nomi alle strade e numeri civici alle case. Entriamo nel bar di donna Flor, accanto alla chiesa di Santa Maria Goretti, che il sacerdote italiano, arrivato a Belèm nel 1990, ha fondato dopo quattro anni spesi a farsi accettare. Lo mandò il vescovo per celebrare messa in quella che allora era una piccola cappella e lui l’ha trasformata in una chiesa dedicata alla protettrice delle ragazze violentate e sfruttate per mangiare. «Abbiamo avuto – confida – casi di aborto anche di bambine di 10 anni ». Il bar di Dona Flor è una grande baracca in legno che vende in nero al bancone alcolici e bibite. È uno dei punti di ritrovo, si viene qui a bere birra o cachaca, il liquore di canna da zucchero, e giocare al lotto. Sul retro, la casa di quattro stanze dove vivono tre generazioni insieme. La nonna e il marito, la figlia con il compagno, e i nipoti. I panni sono stesi ad asciugare sui fili tirati in soggiorno. In cortile ci mostrano con legittimo orgoglio un gabinetto. Una rarità nella favela, anche lo spazio di tre stanze in una baracca è un lusso.
«Spesso la casa è costituita da una stanza sola – aggiunge padre Pighin – dove tutta la famiglia mangia e dorme in condizioni di promiscuità. Il degrado e la miseria vanno a braccetto con le attività criminali e la prostituzione anche minorile. Senza contare che spesso i bambini vengono abbandonati o restano orfani. Allora finiscono a vivere in strada». Donna Flor è cieca e scatta in piedi quando sente la voce di padre Claudio salutarla per abbracciarlo.
Usciamo a passeggiare su Palo central. Passando, si avvicinano persone che ci mettono in guardia con due parole: «Zona vermelha».
La regola è che dopo il tramonto, se hai la pelle bianca e sei occidentale, è meglio girare al largo da Guamà. E di giorno, chi gira a piedi a Palo central, la via principale, larga e sterrata, lo fa a suo rischio e pericolo. Gruppi di giovani sentinelle sedute davanti alle case osservano i passanti, i rari forestieri non passano inosservati. Perciò vietato estrarre cellulari, portafogli o macchine fotografiche digitali. Circolano poche auto e quelle dei favelados sono tenute rigorosamente sotto chiave dietro le sbarre delle grate metalliche. I taxi si rifiutano di condurre il cliente qui, spesso nemmeno con salate maggiorazioni e neppure la polizia entra se non con sanguinose incursioni dei reparti speciali in assetto di guerra. Lo Stato a Guamà, controllata dalle gang, ha la faccia dell’elicottero che gira in continuazione sopra le nostre teste. Solo a Palo Central si registra una media di quattro rapine al giorno. Anche noi, nonostante la presenza di padre Claudio, ce la caviamo grazie alla segnalazione di una catechista della parrocchia che, urlando, mette in fuga due gruppi di bambini che ci stavano circondando alle spalle. Normale routine nella favela violenta dei disperati, affacciata sul fiume, ma ormai troppo lontana dalla foresta per ricordarne l’umanità. Le baracche circondano la città ma spuntano anche nel centro. Metà degli abitanti campa con due dollari al giorno. La povertà alimenta la criminalità, rapine, spaccio e prostituzione minorile. Il lavoro tra la gente di padre Pighin, che vive qui da vent’anni. Vietato estrarre cellulari e portafogli
Dopo il tramonto, se sei occidentale e hai la pelle bianca, meglio girare al largo.

(Paolo Lambruschi, inviato "Avvenire" a Belém - Brasile)

 

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